Viaggiare, spostarsi, migrare, mettersi o essere in movimento sono condizioni note e comuni agli uomini e alle civiltà di tutte le epoche e culture, che si espletano di volta in volta con significati e modalità diverse. Il viaggio è archetipo, modello generale cioè, di tutto quanto parte, procede, giunge e, a volte, ritorna. Archetipo della vita, dunque, non solo nel senso banale del suo fluire dalla nascita verso la morte, ma nel senso pieno di un percorso attraverso esperienze che plasmano, trasformano, alterano, configurano l’identità.
Il tema del viaggio è, quindi, universalmente riconosciuto e rilevante. È significativo a tale proposito notare che esso ricopre un campo metaforico ampio e acquisito: dalla struttura della vita come cammino, pellegrinaggio o passaggio (il “cammin di nostra vita” di Dante o il “dubbioso passo” di Petrarca), al concetto della morte come “trapasso”, “ritorno a Dio, “ultimo viaggio”.
Dal punto di vista socio-antropologico e psicologico, tramite la metafora del viaggio si esprimono anche transizioni e trasformazioni legate ai riti d’iniziazione e di passaggio. Il viaggio dell’antichità, ad esempio, coincide con il viaggio dell’eroe, punteggiato di fatica, sacrificio, patimento, una serie di insidie e pericoli. Il protagonista subisce nel percorso un effetto di focalizzazione su se stesso: spogliandosi di tutti gli appetiti superflui, delle ambizioni vane, consumando le energie in lotte impari, perdendo i compagni, egli scopre la sua reale identità e può far ritorno in patria dopo avere conquistato la saggezza.
Il viaggio, quindi, genera e soddisfa un bisogno di mutamento, produce dei cambiamenti sulla concezione dell’io, dell’altro e dei rapporti umani, in altre parole un cambiamento della percezione che il viaggiatore ha di sé, delle persone e degli oggetti che lo circondano prima, dopo e durante il viaggio.
Secondo un antico aforisma arabo, esistono tre tipi di viaggiatori. C’è chi procede solo con i piedi: è il mercante, i cui viaggi sono sempre e solo un transito per luoghi, con un’altra finalità in mente. C’è poi chi avanza per strade e città con gli occhi: desidera scoprire e sapere, sostare davanti ad antichi monumenti, ammirare opere d’arte e paesaggi. Costui è il sapiente, o, più modestamente, diremmo oggi, il turista. Infine, c’è chi viaggia con il cuore, alla ricerca della “perla segreta”: ebbene, costui è il pellegrino di ogni tempo e religione. Il pellegrinaggio è un atto simbolico universale, che intreccia in sé dimensioni mistiche ed esistenziali, ricerca e certezza, grazia salvifica e quiete psichica, sostenuto da quella tensione interiore verso l’Oltre e l’Altro, verso il mistero sacro che è nell’anima umana e nella divinità.
In verità, il viaggio attraverso i paesi del mondo è per l’uomo sempre anche un viaggio simbolico:
ovunque vada è la propria interiorità che sta esplorando, è solo viaggiando che darà voce ad una parte di sé che chiede di venir fuori. Colui che viaggia ha a bordo solo se stesso: portiamo con noi solo la casa della nostra anima, come fa una tartaruga con la sua corazza, perché da se stessi non si può fuggire.
Viaggiare significa, allora, sconfinare nell’insolito, nel non conosciuto, perdere i punti di riferimento, uscire dal tempo e dallo spazio della quotidianità, rompere gli ormeggi per scappare dalla routine e dai legami ingannevoli.
L’accorto viaggiatore è colui che riesce a scegliere e che sa rinunciare: in fondo, viaggia bene chi è libero dall’ansia del possesso e della totalità…
Gli antichi Greci avevano dato un nome e un volto alle essenze archetipiche del viaggiare umano: Ulisse, Demetra, Perseo, Giasone, Ercole portano ancora oggi, dopo quasi tre millenni, alcuni semi di riconoscibilità all’orecchio della nostra psiche. Non c’è mito, tra questi, che non trovi pertanto in noi risonanza: il suo inesauribile contenuto spinge al viaggio, che è partenza, purificazione, disorientamento, oscurità, incontro con lo sconosciuto, enigma, passione, trasformazione, nonché conoscenza ed oblio.
Dunque, il viaggio chiede di spogliarsi, di lasciare la zavorra che fu prima ritenuta necessaria, di abbandonare certezze presunte tali, di arricchirci di ignoto, di nutrirci di passione, di farci raggiungere dagli dèi sotto mentite spoglie anch’essi provvidi nel donare e nel sottrarre. Conducendoci tra rovine ed eccellenze, tra spazi sconfinati e miniature pregiate, tra incontri ed abbandoni, il viaggio testimonia da dove e verso cosa l’esistenza è guidata: nel risuonare dei nostri modi e ritmi di viaggiare potremo scoprire elementi alleati ed ostili, recuperare come quid prezioso anche ciò che appare insignificante, un gesto, una parola, un incontro… Ciò alimenterà il nostro immaginario, espanderà un poco la nostra coscienza mitica, feconderà ulteriormente l’ humanitas di cui siamo profondi debitori verso la Psiche poetica dei Greci.
“Ma solo facendo un viaggio si capirà perché lo si doveva fare;
e se qualche volta è difficile partire perché le abitudini, il dovere, gli impegni, la mancanza di tempo, il dubbio, le aspettative delle altre persone
sembrano ostacoli insormontabili,
non dimentichiamo che c’è solo una cosa peggiore del viaggiare, ed è il non viaggiare affatto”
(Oscar Wilde)